Ma cosa sono e perché sono così importanti? Nell’era dell’”Internet of Things” in cui oggi viviamo ogni cosa produce dei dati. Prendiamo ad esempio una sedia e mettiamoci dentro un chip che rilevi dei dati e li trasmetta in rete: ecco quella sedia comincerà a mandare milioni di dati. Pensiamo anche alle black box installate dentro alle nostre auto che mandano subito assistenza quando accade un incidente o che danno uno sconto sulla polizza assicurativa se abbiamo guidato in modo corretto. Nel caso della sedia tutti i dati inviati sono probabilmente spazzatura e non serviranno a niente, ma nel secondo caso i dati mandati possono salvarci la vita o farci risparmiare qualche centinaia di euro al rinnovo della polizza assicurativa.
Ogni giorno viene raccolta una massa di dati enorme. Ogni cosa che facciamo, dal comprare una cosa online all’aggiornare il nostro profilo sui social, produce dei dati, che possono essere raccolti e analizzati. Lo tsunami di dati ci sta travolgendo.
Adesso quello che uno potrebbe pensare e se tutti questi dati che vengono raccolti e analizzati sono una grande opportunità oppure un enorme spazzatura digitale? Francamente penso che questa sia una grande opportunità per riuscire a spiegare cose e processi molto complessi. Per spiegare tali processi serve però una figura specifica, che è quel del Data Scientist. Il compito dello scienziato del dato è quello di far raccontare ai dati una storia che non sia banale, ma che ci faccia anzi scoprire qualcosa che non sappiamo e che stavamo ignorando del tutto.
Pensiamo ad un primo caso pratico dei big data studiato negli anni novanta: una catena di supermercati americana si serviva di strumenti statistici per analizzare ciò che i propri clienti compravano; l’azienda aveva notato che al venerdì sera si trovavano nello stesso carrello pannolini e birra. Analizzando più in profondità questo dato, scoprirono che le mogli il venerdì sera mandavo i mariti al supermercato per comprare i pannolini e questi, dato che si trovavano lì, acquistavano anche qualche confezione di birra. Il supermercato approfittò di questa cosa e spostò la birra sugli scaffali vicino a quelli dei pannolini e come risultato ebbe un aumento significativo sia delle vendite di pannolini che di birra.
Da ciò si capisce cosa si possa trovare nei dati. Non analizzarli sarebbe davvero uno spreco.
In realtà interpretare e analizzare dati fa parte di una disciplina che ha una storia lunga più di due secoli e che si chiama statistica. Fino alla fine degli anni novanta gli analisti dovevano porsi il problema di quali e e di quanti dati raccogliere e storicizzare poiché questa operazione aveva un costo molto elevato. Adesso la situazione è profondamente cambiata: tantissimi dati sono già disponibili per essere analizzati, pensiamo ad esempio alle transazioni bancarie oppure agli acquisti online. In questo contesto la figura del data scientist diventa quindi determinante per acquisire dei vantaggi competitivi dai dati.
Purtroppo oggi questa cosa in Italia non si è ancora molto capita: secondo le ultime ricerche solo 3 grandi imprese su 10 hanno in organico un data scientist. Mi auguro che il trend cambi velocemente perché altrimenti si perderebbe una grande opportunità di crescita.
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